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Le consapevolezze ultime. A cena con Aldo Busi

Le consapevolezze ultime. A cena con Aldo Busi

La scrittura è lo strumento fenomenale per svelare gli habitat nascosti, per assecondare la propria passione civile, mai disgiunta dall’autoironia e dall’allegria che prorompe intermittente nella narrazione, riecheggiante il sapore inconfondibile della vita.

Il libretto di 137 pagine di Aldo Busi Le consapevolezze ultime, Torino, Einaudi, Stile Libero Big, 2018, è un grandissimo libro. Lo spunto è dato dalla partecipazione ad una cena organizzata nella loro magione monteclarense, dalla moglie del ragionier Guglielmo Inossi, Guglielmone per gli amici, impresario dell’acciaio, a cui sono invitati industriali, notabili, banchieri, il sindaco con la sorella, neolaureate in scienza della comunicazione con stage retribuito regionale.

Nella scrittura di Aldo Busi, noto ai più per le sue intemperanze verbali e sessuali più esibite che esercitate, anche nei passaggi sul sesso, descritto senza filtri ed ipocrisie e con una capacità letteraria stratosferica rispetto alla migliore letteratura erotica, la cifra dominante è quella del rifiuto di ogni ipocrisia, di ogni perbenismo fasullo, la rivendicazione del valore della comune umanità avvilita dalla protervia del denaro.

Non so cosa ne possa pensare Busi, ma nelle sue pagine mi pare di ritrovare il moralismo manzoniano di un altro «gran lombardo», Carlo Emilio Gadda, col quale l’A. condivide la strabiliante e pirotecnica capacità linguistica, lucida eccezione rispetto all’attuale melassa libraria narcotizzata dagli editor. Condivide la concezione dell’erotismo come reagente dell’ipocrisia borghese (si vedano i saggi gaddiani di Eros e Priapo) e il narrare non come trama ma come esplorazione dell’anima e dell’etica civile, dei rapporti familiari (La cognizione del dolore).

Se questa è l’habitat esistenziale in cui si muove l’opera di Busi, fare cenno ai contenuti gastronomici della cena, rischia di apparire banale e, mi immagino, suscitare il sarcasmo senza appello dell’Autore.

Tuttavia, come sempre, i cibi ed i riti gastronomici sono la spia infallibile di come la comunità esprime i propri rapporti interni e le proprie consapevolezze.

Ecco alcuni stralci.

«Dopo i primi dieci minuti che ancora in piedi tutti manducavano le tartine di rigore senza fiatare come una muta di amebe dandomi strette di mano sempre più svagate e unte tanto ghiotti erano quei triangoli di pane bianco con lardo pestato e carciofini sott'olio, alici marinate e prezzemolo, bagòss e bottarga e con ogni genere di salumi nostrani...» (p.15, cit.)

«...mi riempio di nuovo il bicchiere, che mi dà ogni volta un senso di ferita in agguato al labbro, di sangria bianca - eccellente, inebriante mistura di spezie, agrumi, ciliegie snocciolate, fresche dal Cile, granita di Veuve Clicquot e spritz del vecchio, caro alkermes, perché i ricchi, se si impegnano, quanto a ospitalità e qualità dei cibi e vini non sono da meno dei poveri, anzi, sono meglio…» (p. 20 cit.)

«...oltre allo stracotto d'asino, seppie coi piselli, baccalà mantecato, roast beef alla fiamma e un intero salmone al sale accompagnato da una scatolina di 28 grammi ciascuno di caviale Beluga servito con topinambur lessato e nulla più qualora a uno fosse venuto uno svenimento da fame arretrata, cui, ben dopo il risotto ai funghi ‘con lo zafferano dei miei crochi pistillo per pistillo raccolto da me’ seguì, l’avrei giurato, ‘una manciatina di tagliolini al tartufo d'Alba» (p. 35, cit.)

A cui si aggiunge

«quella Corna Blacca di bossolà con crema chantilly e zabaglione guarnito di palline di mango e papaya, appena apparso in tavola subito dopo una tradizionale sleppa a teschio di pane dei morti gonfia di mandorle e canditi come si conviene» (pp. 44-45, cit.)

Il menù sbanda tra il bisogno di ancorarsi a cibi atavici e l’esercizio dell’opulenza che consente di arricchirlo a dismisura, nell’ansia barocca di colmare il vuoto: in questo ondeggiamento la chiave interpretativa di un costume, non solo dietetico, disorientato e privo di anima, che si riflette anche nella perdita di dignità del momento del pasto: «[il direttore di banca Morgan Stanley di noialtri]…. scucchiaiava e sforchettava alla grande impassibile e […] non guardava nessuno, non ascoltava nessuno, cupamente divorava e divorava e divorava ogni portata e ogni bis, impenetrabile a ogni sguardo di ammirata perplessità per quelle mandibole che forse stavano maciullando anche le posate e i piattini dei contorni» (p. 45, cit.).

Uscito dalla cena, l’Autore, dopo breve tratto in macchina, il tempo di mettere in folle, scendere già piegato in due e «vomito, vomito e ancora vomito, vomito anche l’onesto e non parco cibo del pranzo di ieri a casa mia…» (cfr p.111), a sancire il totale rifiuto di quel mondo famelico ed ingordo ed il suo realismo lombardo indagatore diventa invettiva furente contro gli ipocriti che lasciano morire i bambini in mare, contro «chi pensa alla reggia per sé il lager per gli altri» (p.132).

Tutto convive nell’universo di Busi, «tutto è realtà, […] e non esistono deserti, esistono habitat nascosti alle brame umane o in divenire che non sono meno vivi perché non li abiti tu […] questa è la realtà e questa è anche la mia consapevolezza ultima [il corsivo è mio]» (p. 130). E la scrittura è lo strumento fenomenale per svelare gli habitat nascosti, per assecondare la propria passione civile, mai disgiunta dall’autoironia e dall’allegria che prorompe intermittente nella narrazione riecheggiante il sapore inconfondibile della vita: «Oh che pecà, sior, che a lù ga piàsers i mànek e miô le spórte!»: la traduzione, superflua a noi bresciani datati, all’ultima pagina del libro.


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Dario Mariotti
Dario Mariotti
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Giornalista pubblicista, business developer di CAST Alimenti, Amministratore di Magazzino Alimentare - Innovethical food Initiative.
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