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Cambiamento climatico: cosa succederà all’acqua?

Cambiamento climatico: cosa succederà all’acqua?

Non tutte le aree del pianeta hanno riserve idriche in egual misura e il cambiamento climatico rende ancora più netta queste differenze. L’assenza d’acqua potrebbe avere ripercussioni sociali e politiche a livello internazionale.

L’ultimo dei nostri articoli riguardanti il cambiamento climatico non poteva che riguardare l’acqua, fonte primaria di vita. Viviamo in una parte del mondo dove negli ultimi anni, con le dovute eccezioni, si è assistito sempre più ad episodi di estrema siccità e mancanza di acqua. A livello mondiale cosa potrebbe significare? Nei due capitoli precedenti a questo, invece, abbiamo introdotto l’argomento e parlato delle conseguenze che avrà sull’uomo, sia a livello geografico che politico.

Le «water towers»

Centinaia di milioni di persone nel mondo dipendono dalle falde acquifere poste su montagne i cui confini sono difficili da determinare, le cosiddette water towers. Queste, a loro volta, alimentano fiumi che non hanno un andamento regolare e nella maggioranza dei casi intersecano diverse nazioni: basti pensare al Nilo che passa attraverso più di 5 stati africani. L’uso che si fa di queste risorse può avere implicazioni non solo per lo stato a monte, ma per tutti quegli attori che basano il loro approvvigionamento idrico da queste fonti. Troy Strenberg, del Center for Climate and Security, riporta l’esempio del progetto cinese di dirottare il fiume Yarlung Tsangpo (o Brahamputra in indi) che nasce in Tibet ma aggira le Himalaya, passando per l’India e infine in Bangladesh.

La Cina non è nuova a questo tipo di progetti, simile al South to North Water Transfer per deviare il corso dei fiumi meridionali verso nord e sopperire così alla mancanza di acqua. Nel primo caso il progetto avrebbe ripercussioni sui due paesi confinanti e non si è fatta attendere una risposta dal governo indiano: «Qualsiasi dirottamente sarebbe stato considerato come un atto di aggressione», si legge nel report. Caso diverso, invece, per il Bangladesh quando è la stessa India a proporre un progetto simile. Le conseguenze andrebbero a toccare circa 100 milioni di persone in Bangladesh che vivono a valle del fiume, come riporta il Guardian in un articolo del 2016. La discriminante, nei rapporti tra queste due nazioni, è data al fatto che il Bangladesh non ha armi nucleari come la Cina, a dimostrazione che la questione è più un gioco di potere e dipende da chi ha la possibilità e le capacità di manipolare la fonte, a scapito di chi si trova a valle.

A questo proposito, Tom Strenberg si sofferma ad analizzare le problematiche legate alla posizione geografica: i processi possono risolversi in accordi diplomatici (il Danubio ne è un esempio) o in contenziosi che si risolvono in conflitti, anche perenni. In aggiunta a questa incapacità politica vi sono l’innalzamento delle temperature, le scarse precipitazioni e il cambiamento nelle dinamiche climatiche. I primi a risentirne saranno quelli a valle, più lontani da un fonte che diventa giorno dopo giorno più precaria. Il fenomeno non interessa quindi solo l’Africa, ma anche l’Asia e ghiacciai presenti in America o sulle Alpi italiane.

Lo scenario più plausibile in mancanza di una politica comune è presto chiarito: meno acqua significa meno agricoltura; meno agricoltura significa meno cibo; meno cibo porta meno mezzi di sostentamento che scatenano proteste civili, fino all’arresto del sistema-stato. Questo è lo scenario peggiore, ma non impossibile. I casi di accordi diplomatici per lo sfruttamento congiunto delle risorse non mancano, dall’Europa fino alla Giordania e Israele. Non si è ancora visto, per il momento, applicato a zone di sfruttamento economico contese tra le parti come il Mare Cinese Meridionale.

Atlantis 2.0

L’acqua resta al centro del dibattito anche per l’innalzamento del livello del mare, fonte di pericolo per alcune realtà. Come affermano nel report Andrew Holland e Esther Babson, gli impatti maggiori si avrebbero nelle Isole Marshall del Pacifico o alle Maldive nell’Oceano Indiano. Ciò non significa che sparirebbero da un giorno all’altro, ma il loro futuro è facilmente prevedibile se si guardano i dati: dal 1951 il livello del mare è salito di almeno 2.8 mm all’anno e non è che una media a livello globale. A causa della forza di gravità, dei venti e la rotazione della terra, queste realtà sono state soggetto di innalzamenti maggiori rispetto ad altri. Alle Maldive basterebbero 0.9 metri per essere sommerse.

Viene naturale chiedersi dove andranno a vivere le popolazioni che ancora abitano queste isole: il presidente di Kiribati ha annunciato nel luglio del 2014 di aver intenzione di acquistare un’isola delle Fiji. Scrive il Guardian che l’isola interessata sarebbe quella di Vanua Levu, in particolare di un’area di 20 chilometri quadrati. Questo è un caso particolare, l’eccezione che confermerebbe la regola: l’immigrazione incontrollata da isola a isola o verso le città della terraferma. In questo caso, però, non si avrebbe un posto in cui rimandarli se non soddisfassero i requisiti. E attualmente la giurisdizione internazionale non prevede ancora lo status di «rifugiato climatico».

L’innalzamento del livello degli oceani riguarda altri aspetti che interessano tutti i continenti. In particolare, le infiltrazioni di acqua salata intaccano le falde acquifere di acqua dolce impedendo sia di coltivare che di bere. Inoltre, l’aumento delle temperature comporta una maggiore acidificazione degli oceani e la conseguente scomparsa delle barriere coralline, fonte di cibo per le comunità isolane e costiere, oltre che barriere naturali contro le tempeste.

Le previsioni suggeriscono che entro la fine del secolo le temperature aumenteranno fino a 2.3 gradi, portando il livello del mare sopra i 90 centimetri entro il 2090. Questo evento comporterebbe problemi anche di natura legale: la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare prevede per ogni nazione una EEZ (zona economica esclusiva) che si estende fino a 200 miglia dalla costa. Questa distanza crea già conflitti nel Mar Cinese Meridionale, in cui i confini di diversi zone si sovrappongono. Per le isole, la cui EEZ è calcolata dal punto più alto sopra il livello del mare, l’innalzamento delle acque non significherebbe solo perdere letteralmente la terra sotto i piedi ma venire riconosciute come rocce, «incapaci di sostenere la vita umana ed economica», perdendo ogni diritto sulle acque antistanti. Esistono dei precedenti storici utili a cercare una soluzione, ma nel caso del governo di Kiribati emigrato sull’isola di Fiji resterebbero validi i loro diritti sulla EEZ? Verrebbero ancora considerati come membri dell’assemblea generale dell’ONU?

L’acqua al centro dei conflitti

Negli ultimi sessant’anni il 40% dei conflitti a livello mondiale ha avuto tra i fattori scatenanti la disputa per il controllo dell’acqua. Marcus D. King e Julia Burnell, basandosi su studi recenti, affermano che ci sono coincidenze tra variazioni climatiche (come la siccità) e la guerra, in particolare in paesi con tensioni etniche preesistenti. Nel report vengono classificati tre tipi di militarizzazione delle risorse: strategica, quando si controlla o si distrugge una determinata area; tattica, in cui l’acqua viene usata come arma contro bersagli militari; coercitiva, cioè l’assoggettamento tramite la privazione di questa risorsa tra i non combattenti.

Nell’agosto del 2014 l’IS si appropriò della diga di Mosul nel nord dell’Iraq. La minaccia di un possibile avvelenamento dell’acqua, o dell’apertura della diga che avrebbe portato all’inondazione delle città sottostanti, fu il fattore scatenante per l’intervento militare americano. Tra il 17-18 agosto le forze irachene e curde riuscirono a riprendere il controllo della diga, supportate da 35 aerei americani. Un episodio utile per capire nella pratica di cosa si sta parlando. Un altro caso simile si verificò nel 2011 in Somalia dopo l’avanzata dell’esercito governativo contro Al Shabaab: come risposta il gruppo terroristico interruppe l’approvvigionamento idrico delle città liberate, portando all’evacuazione di centinaia di migliaia di persone.

Secondo Marcus D. King e Julia Burnell, le tensioni scaturite dalla mancanza di acqua non si scatenano solo in zone in cui vi è la presenza di gruppi armati. La mancanza di risorse comporta lo spostamento di gruppi persone alla ricerca di un luogo più ospitale in cui vivere. L’arrivo comporta uno stress a livello sociale che può portare a galla vecchie diatribe etniche rimaste assopite per secoli. Inoltre, questi spostamenti avvengono in zone in cui vi è una situazione precaria generalizzata: il tessuto sociale non è abbastanza forte ed organizzato per accogliere nuove persone e quelle che già ci vivono si vedono depredate delle poche risorse su cui potevano ancora contare. È il caso registrato in Nigeria tra il gruppo seminomade dei Fulani e degli agricoltori cristiani della Middle Belt: il motivo di scontro tra le parti riguarda lo sfruttamento di un territorio già oltremodo danneggiato dai cambiamenti climatici. I primi sono allevatori di bestiame e si muovono in cerca di pascoli per sopravvivere. I secondi sono agricoltori che non possono permettersi di perdere terreno coltivabile dopo gli episodi di siccità che hanno colpito questa striscia di terra.

Pesce e caffè

L’acidificazione degli oceani e il loro riscaldamento sono temi già affrontati in precedenza, ma ha implicazioni che vanno oltre la questione ambientale. Stando a quanto riportato da Michael Thomas, dalla fine della seconda guerra mondiale vi sono stati innumerevoli episodi di scontri o dispute legate alla pesca, dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico e dall’Oceano Pacifico a quello Indiano. La Cina è arrivata fino alle acque dell’Africa occidentale per pescare circa 40 mila tonnellate di pesce dalle acque del Senegal, intaccando la principale risorse alimentare del paese.

Un altro aspetto, secondo Michael Thomas, è legato alla qualità dell’acqua negli oceani: negli ultimi 40 anni la temperatura superficiale si è alzata di 0.11 °C per decade, contribuendo all’espansione termica e al cambiamento dell’ecosistema marino. Il problema si riflette non solo sulla scomparsa o emigrazione dei pesci ma sulla sicurezza alimentare, in particolare per quelle nazioni in via di sviluppo la cui alimentazione si basa per il 20% sul pesce.

Le zone maggiormente a rischio restano il Mare Cinese Meridionale, l’Artico e la regione dei grandi laghi in Africa. Quest’ultima possiede il 25% di scorte d’acqua potabile a livello globale e il 10% di pesce. Ne usufruiscono una dozzina di paesi africani che hanno una situazione interna difficile. Intaccare queste risorse significherebbe mettere sotto pressione una realtà già instabile, ma è ciò che il cambiamento climatico sta già facendo. Il lago Ciad, ad esempio, negli ultimi 50 anni ha perso il 90% della sua superficie e potrebbe sparire entro i prossimi 20 anni. È fonte di sostentamento per 30 milioni di persone che si rivolgeranno altrove per sopravvivere.

Il caffè, invece, non viene normalmente considerato nelle analisi di questo genere. Eppure, come afferma Michael Thomas, è la fonte primaria di sostentamento per 125 milioni di persone, di cui il 90% sono piccoli agricoltori. L’aumento della temperatura ha inciso sulle colture e non tutti i produttori hanno i mezzi per poter variare la produzione o trovare metodi alternativi per proteggere una pianta così delicata. L’altitudine ottimale per coltivare il caffè si alza anno dopo anno e si prospetta che entro il 2050 si potrà continuare a produrlo solo dai 1600 metri di altitudine. Gli impatti si vedrebbero sulle economie nazionali, nonché sulla qualità di caffè che si è abituati a consumare. Il Centro America è la zona più a rischio con 2 milioni di persone impiegate in questo settore. Michael Thomas spiega che tra il 2012 e il 2013 le colture del caffè dovettero far fronte ad una malattia chiamata «ruggine del caff軂 che colpì circa 1 milione di acri: la pianta venne colpita da un fungo che normalmente non resiste sopra ai 1600 metri (10°C) ma l’innalzamento delle temperature lo porterà fino ai 2000 metri. I rimedi utilizzati finora si stanno dimostrando inutili e nei peggiori dei casi, come in America Centrale, costringe i governi a dichiarare lo stato d’emergenza.

I piccoli agricoltori non hanno molto spesso i mezzi per spostare la produzione in aree adatte alla coltivazione oppure ad investire in nuove tecniche. I posti di lavoro persi annualmente sono una sfida non indifferente per paesi che non prevedono un piano di investimenti diversificato e soffrono già di problematiche interne. La migrazione diventa l’unica via di fuga soprattutto per i giovani che non trovano alcuna occupazione. In questo panorama non vanno dimenticate le organizzazioni di narcotrafficanti che diventano sia una possibilità di guadagno che un fattore decisivo nella scelta di partire per allontanarsi dalla violenza che generano. Il risultato è un paese che si svuota, incapace di prendere decisioni politiche incisive su un settore trainante.

Fonti: climateandsecurity.org - theguardian.com - washingtonpost.com


Carlotta Pervilli
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Laureata in Storia, ma appassionata di giornalismo. Disorientata tra conflitti mondiali e ambiente, resta certa solo di una cosa: l’essere curiosa.
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