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Cambiamento climatico: cosa succederà all'uomo?

Cambiamento climatico: cosa succederà all'uomo?

Il cambiamento climatico mette a dura prova i governi. La stabilità di un paese si misura, ad oggi, anche tenendo conto di questo nuovo elemento. Quali potrebbero essere i suoi effetti? Alcuni li stiamo vedendo già oggi.

Il discorso sul cambiamento climatico non è teorico come la maggior parte di noi continua a credere. L’epoca geologica in cui si è assistito al maggior sviluppo della civiltà umana è l’Olocene, considerato il periodo climatico più stabile degli ultimi 400 mila anni. Il progresso dell’agricoltura, della tecnologia e la nascita del concetto stesso di stato-nazione avvenute in quest’epoca si basavano sull’assunto che le risorse naturali e il clima in cui eravamo abituati a vivere non sarebbero cambiati. Il punto di svolta vi è stato quando ci si è resi conto che l’azione dell’uomo aveva inciso sul clima e che si stava entrando probabilmente in nuova era chiamata Antropocene. Questo articolo vuole proseguire quanto introdotto già la settimana scorsa sull'argomento, approfondendo i diversi cambiamenti in atto a livello politico, economico e sociale che stanno sempre più rapidamente trasformando il volto del pianeta.

La stabilità politica al centro

Gli autori Francesco Femia e Caitlin E. Warren del Center for Climate and Security cercano di analizzare la natura della minaccia rappresentata da questi cambiamenti capaci di minare le fondamenta dello stato moderno per come lo conosciamo. L’innalzamento delle acque o eventi atmosferici estremi mai registrati prima d’ora potrebbero intaccare risorse come acqua, cibo, trasporti o sistemi elettrici, mettendo in forse la sicurezza nazionale. Eventi di questa portata non hanno conseguenze solo nel breve periodo, ma destabilizzano un sistema che se impreparato, o sotto pressione per altri fattori, potrebbe non reggere.

I due ricercatori indicano sei tipi di situazioni in cui la scarsità di risorse può portare all’erosione della sovranità: Stati da Comma22, che credono di avere più possibilità di scelta ma in realtà hanno una sola opzione; nazioni vulnerabili che presentano una stabilità di sola facciata; stati fragili che non sarebbero in grado di affrontare eventi climatici estremi e potrebbero arrivare al collasso; zone di conflitto tra stati, come il Mare Cinese Meridionale che vede contrapposte la Cina e il Vietnam per lo sfruttamento delle risorse; nazioni che stanno scomparendo a causa dell’innalzamento del livello del mare, come nel caso delle Maldive; infine, attori non governativi come gruppi terroristici o organizzazioni criminali più generiche che sfruttano la debolezza del governo per prenderne il controllo.

Inserire all’interno del dibattito politico i cambiamenti climatici è diventato fondamentale per capire come affrontare queste realtà complesse. Se non si può ascrivere tutto ai solo eventi climatici, è innegabile però che questi non possano esserne esclusi. Un esempio, secondo gli autori, è quello che riguarda la Siria allo scoppio della Primavera Araba: gli analisti, tra cui anche l’amministrazione Obama, pensavano che fosse poco probabile che le proteste si scatenassero anche lì. L’errore fu di non tenere in considerazione, tra le altre cose, la vulnerabilità data dall’estrema siccità a cui aveva assistito il Paese tra il 2007 e il 2010 e la dislocazione interna di 2 milioni di persone dopo la perdita dei raccolti. Il regime di Assad non era stato in grado di cambiare strategia politica e la perdita di sicurezza alimentare aveva intaccato anche quella nazionale, portando alle proteste di piazza.

La correlazione tra cambiamenti climatici e crisi politiche interne è un tema ancora molto dibattuto, soprattutto se vengono presi come esempio la Siria o la Primavera Araba in generale. Tuttavia, altri centri di ricerca come Mapelcroft, citato da Business Insider in un articolo di Michael Kelley del 2013, esaminano altri casi in cui eventi climatici estremi hanno avuto ripercussioni diverse nel mondo. In questo caso, si parla dell’uragano Sandy e il tifone Bopha, entrambi verificatisi nel 2012, il primo sulla costa orientale degli Stati Uniti e l’altro nelle Filippine. Nel primo caso, benché fosse proporzionalmente più forte di quello filippino, le vittime furono «solo» 110. Le vittime del tifone Bopha furono invece più di mille. Quella che fa la differenza in questi casi è la capacità di reazione e preparazione che ogni governa ha nell’affrontare situazioni simili.

Il traffico marittimo

Ad agosto di quest’anno è uscita la notizia del passaggio di una petroliera russa nel Mar Glaciale Artico senza l’aiuto di una nave rompighiaccio. È il primo caso nella storia ed è avvenuto in parte a causa dell’innalzamento delle temperature e il conseguente scioglimento dei ghiacci. La cosiddetta «rotta marittima del Nord» permette di collegare l’Asia e l’Europa impiegando due terzi del tempo necessario: sono partiti dalla Norvegia arrivando fino in Corea del sud in soli 19 giorni, evitando il canale di Suez. Prima di questo episodio, le rotte comuni obbligavano a passare per pochi stretti, considerati punti strategici. Stando ai dati riportati da Adam H. Goldstein e Constantine Samaras, nel 2013 il greggio trasportato attraverso lo stretto di Hormuz e Malacca ha rappresentato il 36% del totale, di cui 17 milioni e 15.2 milioni di barili ciascuno. Questi passaggi sono obbligatori e diventano teatro di provocazioni o conflitti che possono comportare conseguenze su scale globale: tra il 2011 e il 2015 nella zona dello stretto di Malacca si è assistito all’aumento degli atti di pirateria dell’84%.

Quale connessione esiste con il cambiamento climatico?

Gli eventi visti fin qui possono portare ad instabilità politica, economica e sociale nel lungo periodo, aumentando la competizione e mettendo in forse la cooperazione tra nazioni. Altro aspetto da considerare riguarda il già citato innalzamento degli oceani: nel giugno del 2016 il Panama Canal Authority ha presentato il progetto «Third Set of Locks» per raddoppiare la capacità del canale. Le misure attuali impediscono le normali procedure nautiche, ma secondo le previsioni nel lungo periodo nemmeno queste modifiche saranno sufficienti. Oltretutto, le zone costiere di mezzo mondo dovranno rivedere il livello delle loro infrastrutture per renderle capaci di resistere all’innalzamento del mare: va da sé che un porto per essere utilizzabile non debba essere sommerso dall’acqua.

Nel caso dell’Artico, invece, si è di fronte ad una zona non ancora del tutto esplorata e con grandi giacimenti di minerali e petrolio. La Russia, stando ai diritti di uso frutto delle risorse nella EEZ, sarà quella che ne beneficerà maggiormente. I rapporti internazionali tra questa superpotenza e il resto del mondo non sono dei migliori e attualmente non vi è un’autorità unica e competente che possa fare da paciere e raccogliere le diverse istanze (se sorgono dubbi, la Russia non fa parte del Consiglio Artico). Adam H. Goldstein e Constantine Samaras ricordano il conflitto diplomatico e politico tra il Regno Unito e la Russia, durato per buona parte del ‘900: denominato «Il Grande Gioco», aveva al centro gli interessi e l’influenza dei due paesi in Medio Oriente e in Asia. L’Artico potrebbe trovarsi al centro di uno scenario simile non esistendo una giurisdizione ad hoc ma solo il diritto internazionale. Già nel 2008 ne parlava Scott G. Borgerson sulle pagine di Foreign Affairs, ricordando come nel 2001 la Russia avesse già cominciato a reclamare un’area di circa 460mila miglia quadrate. La risposta delle Nazioni Unite fu di totale diniego, ma non fu abbastanza per impedire al Cremlino di inviare una rompighiaccio e due sottomarini nelle acque artiche. Ad oggi, le risorse naturali attualmente sono ancora considerate patrimonio comune dell’umanità.

Le rotte commerciali diventeranno nel tempo fondamentali non solo per sostenere l’economia dei paesi che esportano, ma per quelli che non riusciranno più a sostenere la domanda interna. Le aree colpite da episodi di siccità e calo delle precipitazioni saranno il Medio Oriente, il nord Africa, l’Asia Centrale, il Sud Africa, l’Europa Meridionale e l’America sudoccidentale. L’instabilità politica di uno solo dei paesi su questi stretti potrebbe comportare problemi a molte altre nazioni.

La questione nucleare

Il dibattito attorno al tema del nucleare è tutt’ora aperto e negli ultimi anni vi si è aggiunta la competente climatica. Se da un lato lo sfruttamento dell’energia prodotta dalle centrali nucleari permetterebbe di ridurre lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas, dal altro lato restano i problemi di sicurezza legati alle scorie e ai possibili incidenti nucleari. Tra questi, l’ultimo in ordine di tempo è quello di Fukushima causato dal blackout elettrico a seguito di un terremoto di magnitudo 8.9. A livello globale i cambiamenti climatici, assieme ad altri fattori, stanno spingendo sempre più stati a percorrere la strada del nucleare, un trend riportato dal Nationally Determined Contributions.

Christine Parthemore analizza quattro punti chiave emersi attorno alla questione della sicurezza: trasparenza sulla portata delle ambizioni nucleari dei singoli paesi; rapporti dettagliati sulle tecnologie nucleari ad alto rischio; programmi nucleari perseguiti in assenza di considerazioni climatiche; un mercato dell’export in cui sono assenti norme e standard nucleari comuni.

Per spiegare questi punti, l’autrice parla dell’annuncio da parte della Cina della costruzione di 6 o 8 nuovi reattori all’anno fino al 2020, oltre allo sviluppo di stazioni nucleari galleggianti nel Mare Cinese Meridionale, una zona già teatro di tensioni. In un articolo pubblicato su Foreign Affairs del 2016 di Keith Jonson, si sottolinea come non sia una novità, ma non si può essere certi che verrebbero impiegate solo per scopi civili. La zona in cui verrebbero poste è già da decenni teatro di scontri e della creazione di isole artificiali usate per scopi militari. La preoccupazione principale è che l’area possa diventare off limits, chiudendo così uno dei passaggi chiave nella navigazione marittima.

Le nuove tecnologie in ambito nucleare riguardano soprattutto i reattori nucleari «autofertilizzanti», produttori di ingenti quantità di plutonio: l’India è intenzionata a sfruttare questa tecnologia, ma nell’ultimo rapporto del Nuclear Threat Initiative è stata segnalata come una delle nazioni con il più alto rischio di furti di materiale nucleare a causa della «presenza di gruppi interessati ed esperti nell’acquisizione illecita». Il terzo punto guarda in particolare al Medio Oriente, una zona che dovrà affrontare lunghi periodo di siccità e limitate risorse idriche: non tenere conto delle sfide ambientali potrebbe voler dire portare avanti un programma nucleare in un contesto esasperato dalla mancanza di mezzi di sostentamento.

Infine, in un mercato globale in cui non esistono norme comune a tutti i paesi si vengono a creare situazioni in cui chi importa ha la possibilità di stringere accordi con paesi che lavorano su standard di sicurezza molto bassi. Non si parla solo di incidenti durante il trasporto, ma della sicurezza dello stabilimento in sé e dello stoccaggio del materiale radioattivo che in certe zone del pianeta potrebbe essere preso di mira da gruppi terroristici. Non serve andare molto lontano geograficamente per considerare questo aspetto: il Belgio è una delle realtà che dopo i recenti fatti deve prendere in considerazione questa possibilità.

Le rotte migratorie

Le problematiche viste fino a qui, assieme ad altre, hanno in comune una possibile conseguenza: l’emigrazione di milioni di persone verso zone del pianeta ancora ricche di risorse naturali. Ci sono varie motivazioni che spingono le persone ad intraprendere viaggi lunghi e molto spesso pericolosi, da quelle economiche fino alla fuga da guerre e violenza, la causa più frequente negli ultimi 20 anni. Secondo Robert McLeman, i cambiamenti climatici sono uno dei molteplici fattori scatenanti e vista la quasi assenza di questo tema nelle agende politiche la situazione non potrà che peggiorare. In più, si aggiunge una nuova categoria direttamente collegabile al clima, quella dei «rifugiati climatici» scappati dalle loro case dopo eventi catastrofici o alla perdita di fonti di sostentamento. Non bisogna pensare subito all’immigrazione internazionale, bensì a quella tra nazioni confinanti o interna: in Cina, ad esempio, sono stimati circa 200 milioni di migranti interni che lasciano le zone rurale alla ricerca di un lavoro nelle grandi città. Non vi sono motivi prettamente economici, ma anche l’impossibilità di poter semplicemente coltivare in aree dove il deserto avanza. Tra il 2015 e il 2016 si sono spostati verso l’Europa circa un milione di persone, un numero esiguo paragonato a quella verso i paesi del Sud del mondo. È il caso anche della Louisiana, di cui vi abbiamo già raccontato, in cui pochi anni fa si assistette al primo dislocamento di cittadini americani per questioni ambientali.

Le strategie nazionali finora attuate hanno dimostrato di non riuscire a fare fronte allo spostamento di così tante persone anche a seguito di eventi climatici estremi avvenuti nei loro stessi paesi. Come riporta Robert McLeman, le statistiche del Dipartimento dell’Immigrazione Americano del 1999 hanno visto un aumento esponenziale degli ingressi clandestini di cittadini provenienti dall’Honduras dopo l’uragano Mitch. Questo singolo episodio circoscritto nel tempo è solo un esempio: questa realtà si ripresenterà gradualmente anche nel lungo periodo quando le popolazioni che vivono sulla costa saranno costrette a spingersi verso l’interno a causa dell’innalzamento del livello del mare e l’aumento d’intensità delle tempeste. Sarà meno percettibile nell’immeditato, ma le città o le zone più rurali dovranno affrontare l’arrivo di milioni di persone che andranno ad ampliare i sobborghi cittadini, esasperando in alcuni casi situazioni già tese. Tra le 20 maggiori nazioni più a rischio secondo il report «Fragile States Index» del Fund for Peace, 12 di queste sono in Medio Oriente, in Asia meridionale e nella zona del Sahel.

È sbagliato pensare che i cambiamenti climatici siano la causa scatenante. Ci sono troppi fattori in ballo per ridurre tutto ad una questione ambientale. L’errore però sta anche nel sottovalutare questo aspetto e non includerlo nell’agenda politica. Esattamente come il mercato globale, tutto è connesso. Ciò che avviene dall’altra parte del Globo avrà ripercussioni sulla nostra realtà nel breve o lungo periodo. La variabilità del clima rende difficile realizzare quanto questo incida sulla nostra vita, ma le tecnologie e l’insieme di dati che i sistemi informatici rendono reperibili possono essere utili per capire qual è la situazione attuale e prospettare un futuro quanto meno verosimile. In questo, forse, aspettarsi il peggio ci permetterebbe di arrivare preparati.

Fonti: climateandsecurity.org - foreignpolicy.com - pbs.org - reuters.com - independent.co.uk - world-nuclear.org


Carlotta Pervilli
Scopri di più
Laureata in Storia, ma appassionata di giornalismo. Disorientata tra conflitti mondiali e ambiente, resta certa solo di una cosa: l’essere curiosa.
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