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Slow Fiber, nasce la Slow Food del settore tessile

Slow Fiber, nasce la Slow Food del settore tessile

Intervista a Dario Casalini, fondatore di Slow Fiber, progetto che punta a declinare i valori di Slow Food nel mondo del tessile italiano

Una Slow Food, ma per il mondo dell’abbigliamento e dell’arredamento. E’ nato Slow Fiber, progetto figlio del più celebre movimento focalizzato sul buon cibo italiano prodotto nel rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. La nuova iniziativa intende creare una rete di aziende desiderose di declinare gli stessi valori anche nel settore del tessile, combattendo il fast fashion e il suo paradigma di business fondato su velocità, quantità e standardizzazione. Sono 16 le realtà italiane che hanno già aderito, un gruppo di società che impiega nel complesso un migliaio di dipendenti e raggiunge un fatturato di 500 milioni di euro. Il fondatore di Slow Fiber, Dario Casalini, racconta a Innaturale.com i primi passi di questo nuovo progetto.

Slow Fiber, nasce la Slow Food del settore tessile
@envatoelements

Com’è nato il progetto Slow Fiber e come è avvenuto questo incontro con Slow Food?

Dopo aver cominciato a lavorare nell’azienda di famiglia, mi sono reso conto che i clienti con cui avevo a che fare avevano enormi difficoltà a comprendere che le cose non dovevano essere solo belle e ben fatte, ma che era fondamentale sapere anche come le si faceva, cioè la filiera che c’era dietro. Dopo un po’ di anni che mi scervellavo su questa cosa, ho riletto ‘Buono, pulito e giusto’ di Carlo Petrini (fondatore di Slow Food ndr), sono andato da lui e gli ho detto ‘io vorrei scrivere lo stesso libro tuo, ma sul tessile’, perché le analogie sono impressionanti.

Basti pensare che noi mangiamo tre volte al giorno, ma siamo a contatto con i vestiti 24 ore al giorno. L’idea gli piacque tantissimo e mi diede la disponibilità di pubblicare il libro con Slow Food Editore. Ma mi chiese di fargli una promessa: creare un movimento dentro a Slow Food che parlasse di queste cose. Secondo lui, era venuto il momento per Slow Food di aprirsi ad altri settori. E il nostro settore è uno dei più impattanti in assoluto sull’ambiente. ‘Mi piacerebbe provare a portare avanti questa battaglia insieme’, mi disse. È nato un po’ così, quasi per gioco.

Quali sono le azioni che nel concreto porterà avanti Slow Fiber per raggiungere gli obiettivi che si prefigge?

Abbiamo due grandi cammini paralleli da percorrere. Da un lato, sensibilizzare il consumatore finale su un concetto semplicissimo nella sua banalità: convincerlo a scegliere le cose belle, che noi italiani sappiamo fare in grande quantità. Ma non il bello a ogni costo. Per noi è bello quello che è anche buono, sano, pulito, giusto e durevole. Mi deve piacere esteticamente, ma io devo fare un passo in più e capire se è stato fatto in maniera sana rispettosa dal punto di vista chimico, sia per chi lo ha prodotto, sia per chi lo dovrà indossare.

Deve essere un prodotto con il minimo impatto ambientale, proveniente da realtà che dimostrano attenzione per i lavoratori e a chi è impegnato lungo la filiera. Infine, deve essere fatto per durare. Il buono per noi è un cappello generale che definisce un po’ il modello industriale, un modello molto legato al territorio, che non delocalizza. Che vuole trasmettere alle generazioni future know how, e competenze che sennò andrebbero perduti spostando pezzi di filiera.

E l’altro cammino?

È dal lato azienda. L’idea è quella di accogliere solo industrie, non artigiani. Vogliamo dimostrare che il modello industriale può essere buono, sano, pulito, giusto e durevole. Non è vero che bisogna de localizzare, abbassare la qualità, ricorrere a sfruttamento per avere un prezzo che consenta di stare sul mercato. Vorremmo essere quindi un modello che attiri tutte le realtà che hanno le stesse caratteristiche delle aziende già dentro a Slow Fiber.

Quali sono le caratteristiche delle aziende che hanno aderito al progetto? Hanno già tutte un occhio di riguardo per la sostenibilità oppure sono realtà che stanno iniziando il loro cammino?

Presa seriamente la sostenibilità è proprio un cammino. Un’approssimazione, un percorso verso una perfezione o un ideale. Ogni cosa che noi facciamo ha un’impronta . Il lavoro per ridurla sempre di più su vari fronti – dalla fonte di energia alla tutela del lavoratore – è sempre migliorabile. Abbiamo definito per ognuna delle nostre parole chiave dei kpi di misurazione, dei requisiti. Alcuni sono obbligatori ed è necessario averli per essere parte del gruppo Slow Fiber. Altri sono di punteggio.

Come gruppo ci impegniamo a diffondere buone pratiche e competenze. La sostenibilità sta diventando un costo per le aziende medie o piccole. Mentre le società strutturate hanno dei manager deputati, quelle manifatturiere non hanno né il tempo né le risorse da dedicare a queste cose, nonostante la grande sapienza. Mettendosi insieme si può creare allora un ambiente virtuoso per aiutarsi a migliorare a vicenda.

Ci sarà un monitoraggio sulle filiere delle fibre tessili che useranno le aziende coinvolte?

Slow Fiber rappresenta la filiera tessile a ogni livello: c’è chi pettina la fibra, c’è chi la fila, chi la tinge, chi la tesse, chi la taglia e la confeziona. È chiaro che ognuno di noi ha un impegno sulla tracciabilità e la trasparenza di filiera che lo porta a dichiarare ai propri clienti tutta la procedura con la quale lavora. Come fibre, noi in questo momento siamo molto sbilanciati sul naturale, perché si colloca in un ecosistema ambientale ed è quindi immediatamente più sostenibile a livello di percezione. Poi, non vogliamo escludere nulla.

La nostra attenzione è però su tutti gli aspetti, non solo sulla fibra. Infatti, potrei avere una lana tracciabile, ma se poi la tingo in maniera difforme rispetto ai regolamenti europei in materia o a una certificazione specifica, può diventare un problema. La vera sfida nostra è l’attenzione alle nostre cinque parole chiave lungo tutta la filiera. Sia nel segmento in cui siamo impegnati, sia in quelli precedenti e successivi. Ad esempio, per noi uno dei più importanti kpi è la scelta di fornitori che abbiano gli stessi nostri ideali e valori.

Negli ultimi anni i giganti del fast fashion hanno avviato alcune iniziative in ottica sostenibilità ed economia circolare. Sono credibili questi tentativi o si tratta di greenwashing?

Per noi greenwashing significa raccontare solo un pezzo. È troppo facile dire che in un pezzettino della filiera sono stato virtuoso. La sfida vera è essere virtuosi dall’inizio alla fine, sempre in maniera migliorabile, ma senza fare i furbi. Per quanto riguarda i giganti del fast fashion ci sono cose credibili e, secondo me, ogni passetto verso quel traguardo è super lodevole. Il vero problema del fast fashion è che lo fa su una piccolissima parte della produzione.

Se avvio un progetto bellissimo, ma questo copre l’uno per mille di quello che faccio, il peso di quella iniziativa è dell’1 per mille. A noi, invece, piace dire, con tutta umiltà, che ci applichiamo in tutto quello che facciamo. Non so giudicare quanto greenwashing ci sia nelle iniziative del fast fashion, ma alla fine diventa un po’ una goccia nel mare. Bisognerebbe che i consumatori avessero una cassetta degli attrezzi per misurare i green claim che vengono loro proposti.

Come si fa a convincere un consumatore che si è abituato a comprare tanti vestiti a pochi soldi ad acquistare meno capi e più cari?

Le cose sono due. Da una parte, bisognerebbe metterci la stessa curiosità e la stessa voglia di racconto che mettiamo sul cibo. Basti pensare a quanti programmi tv a tema food ci sono e a quanta fame di racconto abbiamo quando ci sediamo al tavolo di un’osteria. Se quella stessa fame la trasferissi in un altro settore merceologico, già avvierei una piccola rivoluzione. Immagina se decidessi di non comprare una maglietta perché la commessa non ti sa raccontare la storia di quel capo. Sarebbe apocalittico se lo facessimo noi un domani.

Dall’altro, forse il problema del consumatore è che non mette in relazione causa-effetto il suo comportamento di consumo. Non vede che l’evento climatico estremo in realtà è causato da un modo di vivere che in realtà basterebbe pochissimo per cambiare. Quando questa relazione sarà più chiara, il cambiamento verrà più naturale. Io non posso sentirmi responsabile di siccità, inondazioni o di sfruttamento di bambini-schiavi dall’altra parte del mondo e dormire tranquillo. E’ impossibile per chiunque. Il problema è che non mettiamo in relazione le cose.


Marco Rizza
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Giornalista, ex studente della Scuola di Giornalismo Walter Tobagi. Osservatore attento (e preoccupato) delle questioni ambientali e cacciatore curioso di innovazioni che puntano a risolverle o attenuarne l'impatto. Seguo soprattutto i temi legati all'economia circolare, alla mobilità green, al turismo sostenibile e al mondo food

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Giornalista, ex studente della Scuola di Giornalismo Walter Tobagi. Osservatore attento (e preoccupato) delle questioni ambientali e cacciatore curioso di innovazioni che puntano a risolverle o attenuarne l'impatto. Seguo soprattutto i temi legati all'economia circolare, alla mobilità green, al turismo sostenibile e al mondo food

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