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Pajata, la regina della cucina povera romana quasi sconosciuta

Pajata, la regina della cucina povera romana quasi sconosciuta

Oggetto di un’aspra contestazione negli ultimi anni, questo piatto mette a dura prova le abitudini alimentari di tutti i giorni, con un ingrediente che bisogna «saper mangiare».

Oggi vi raccontiamo della pajata, un piatto romano tra i più caratteristici: pasta al sugo, condita con l’intestino di vitello. Anzi, per essere precisi, con il termine pajata si indica la prima parte dell’intestino tenue dell’animale, quando ancora si alimenta esclusivamente con il latte. Perché il dettaglio più interessante di questa preparazione sta proprio qui, nel latte, che digerito diventa chimo e viene conservato al suo interno durante la preparazione. Il risultato è un gusto assolutamente caratteristico, semplicemente inconfondibile.

Per palati forti

Se state ancora leggendo e non siete fuggiti dall’articolo un po’ schifati, complimenti! Spesso è difficile per noi «consumatori evoluti» concepire piatti come questo, che sentiamo lontani, cruenti, per certi versi quasi meno civili di una bistecca. Ma sono ricette queste che arrivano dritte dal passato, aggrappate alla necessità di sfruttare ogni singola parte di un animale, quando nutrirsi di carne era un’occasione, non una abitudine, e per accaparrarsi gli avanzi bisognava stare vicino al macello.

Ecco da dove nasce la pajata, dall’immenso valore che si dava alla macellazione di un vitello, al non volerne buttare una sola parte, anzi, trasformando quelle che noi oggi abitualmente scartiamo in vere e proprie leccornie, spesso dai più poveri. O come la descrive Alberto Sordi alla raffinata e affascinante ospite francese, in quella famosa scena del Marchese del Grillo, «Questa è merda! È proprio merda. Merda de vitella: so’ budella».

Questione di rigatoni

La pajata viene saltata in padella con un filo d’olio extra-vergine e il classico soffritto con cipolla, carota e sedano, uno spicchio d’aglio e del peperoncino. Si rosolano delicatamente le interiora per una decina di minuti, sfumando quando la padella è rovente con del vino bianco. Solo a questo punto si aggiunge la passata, dove i piccoli bocconcini di intestino, insaporiti dal chimo che conservano al loro interno, continuano a cuocere per un paio d’ore.

In alternativa si può usare come secondo, basta cucinarle in umido, oppure arrosto con l’aggiunta di un po’ di strutto, o ancora alla brace, insaporite semplicemente con sale e pepe. Per molti anni questo piatto è stato osteggiato, magari ancora qualcuno si ricorda della famosa mucca pazza, ed è solo di recente che è stata reintrodotta la possibilità di usare questa parte del vitello, chimo compreso. Se siamo riusciti a stuzzicare la vostra curiosità, e vi ritenete abbastanza coraggiosi, non vi resta che provarla.

Fonti: lorenzovinci.it - scattidigusto.it - lazio.cucinaregionale.net


Matteo Buonanno Seves
Matteo Buonanno Seves
Scopri di più
Un giovane laureato in Scienze Gastronomiche con la passione per il giornalismo e il mai noioso mondo del cibo, perennemente impegnato nel tentativo di schivare le solite ricette e recensioni in favore di qualcosa di più originale.
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