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Il garum e la conservazione del pesce sotto sale nell’antichità

Il garum e la conservazione del pesce sotto sale nell’antichità

Il garum è una salsa speciale, ricercatissima nell’antica Roma, nata dall’esigenza della conservazione del pesce sotto sale. Ecco la sua affascinante storia.

Conservare il cibo è sempre stata un’esigenza indispensabile per alimenti deperibili. Da qui nasce il garum, originato dalla necessità della conservazione del pesce sotto sale nell’antichità. Una salsa speciale, ricercatissima nell’antica Roma, di cui oggi esistono ancora dei degni eredi.

La conservazione sotto sale

Quando non esistevano i frigoriferi, la questione della conservazione degli alimenti rappresentava un enorme problema. Nell’antichità i metodi di conservazione, di alimenti come il pesce, erano l’essicazione, la salagione, l’affumicatura, in conserva o in semi conserva. La conservazione sotto sale era uno dei metodi più semplici e diffusi. Il pesce sotto sale era chiamato in greco tarichos e salsamenta in latino. Lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto nella penisola iberica e nel Nord Africa, sono stati scoperti numerosi resti di impianti per la salagione del pesce e saline, utili all’approvvigionamento del sale, elemento preziosissimo, dal costo proibitivo, specialmente in alcuni periodi storici.

Al pesce si staccavano testa e stomaco e veniva lasciato intero o tagliato a pezzi, salato (salagione a secco) o conservato in salamoia (salagione in umido). In questo modo era anche più semplice trasportarlo per essere commercializzato. Le specie ittiche più adatte erano quelle appartenenti alla famiglia dei clupeidi, cioè aringhe, sardine, acciughe. Oltre alle note proprietà antisettiche del sale, la salagione produce una disidratazione dei tessuti che blocca l’autolisi. Richiede però grandi quantità di cloruro di sodio (NaCl), appunto di sale, molto costoso nell’antichità.

Il pesce, una volta salato, poteva essere subito commercializzato o essere sottoposto a tecniche complementari di conservazione, come l’affumicamento o la marinatura. Invece la salamoia, immersione del pesce in una soluzione di acqua e sale, richiede una salinità minore, anche al 10-20%, che basta a impedire l’inizio della putrefazione, bloccando lo sviluppo batterico. La salamoia è impiegata anche per la conservazione di prodotti vegetali fermentati come olive, crauti, cetriolini e altri ortaggi.

La salagione a secco, usata pure per la carne, per la preparazione di insaccati e di prosciutti, comporta alcuni svantaggi: l’aumento del tasso di sodio negli alimenti trattati e la diminuzione del valore nutrizionale, con la dispersione di alcune vitamine, specie la C, e di sali minerali. Il risultato della decomposizione in salamoia porta invece alla formazione di un liquido commestibile, di colore ambrato e di gusto salato, ricco di proteine, iodio, fluoro, con aminoacidi, detti istadine, e vitamine del gruppo A e D. Questo liquido ha una storia antichissima: è il garum.

Il garum, ricercatissima salsa «puzzolente»

Con il nome di derivazione greca garum, si intendono salse e paste a base di pesce ottenute mediante la fermentazione in salamoia. Nonostante le fonti antiche ne parlino tante volte, ancora oggi non conosciamo con esattezza di cosa si tratti, ma sappiamo che era molto apprezzato e serviva a conferire sapidità a preparazioni sia salate che dolci. Per fare il garum si potevano impiegare «infiniti tipi di pesce», scrive Isidoro di Siviglia. Il più apprezzato era quello che derivava dall’impiego del pesce azzurro. Il più costoso e pregiato era il garum sociorum (il garum per gli amici), preparato soltanto con sgombri e prodotto nel sud della Spagna. Quello di tonno o alici era detto muria, quello fatto con il sangue di tonno nigrum. Plinio, nella naturalis historia (xxxi 95) racconta che il primo garos greco fu fatto usando «un piccolo e insignificante pesciolino», l’acciuga.

L’odore forte del garum, che diverse fonti antiche definiscono odore di marcio ‒ tra tutte molto divertente è l’epigramma di Marziale (xi 27,2) a proposito di un amico capace, pur di averla, di sopportare l’odore pestilenziale di una ragazza che ne aveva bevuto parecchio ‒ ha alimentato il pregiudizio che fosse una salsa ricavata dalla putrefazione del pesce. Invece si tratta dell’esatto contrario: è una preparazione nata per preservare la sua commestibilità. Le origini del garum rispondono quindi alla necessità di conservare pesci molto piccoli che mettere sotto sale avrebbero richiesto un lavoro immane e per riciclare grandi quantità di scarto di varietà ittiche di grandi dimensioni ‒ viscere, apparato branchiale, sangue e fascia grassa addominale ‒ che altrimenti si sarebbero dovuti gettare via.

Il gusto umami

Una delle caratteristiche che rendeva così gradito il garum nell’antichità è il gusto umami, che in giapponese significa «saporito», conferito dal glutammato monosodico, una molecola presente nei tessuti degli organismi sia legata ad aminoacidi in proteine complesse che in forma libera. Il glutammato è molto concentrato nelle salse ottenute dalla fermentazione in salamoia di organismi marini, ed è presente naturalmente anche nella carne, nel pesce, nella verdura e nei prodotti lattiero-caseari.

Come di faceva il garum?

Forse perché il garum era un preparato di natura industriale, prodotto e commercializzato su larga scala nel mondo romano, Apicio nel de re coquinaria descrive ben venti ricette a base di questa salsa ma sorvola su come veniva fatto. Per sapere qualcosa di più sui diversi passaggi della preparazione dobbiamo attendere fonti più tarde: il De medicina et de virtute erbarum di Gargilio Marziale, vissuto nel III sec. d. C., e le Geoponiche, raccolta di libri di agronomia compilata nel X secolo.

Il pesce era immerso in una salamoia forte insieme a erbe aromatiche e spezie dal sapore intenso (aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano) in grandi recipienti o in vasche e lasciato stagionare al sole rigirandolo costantemente. Quindi filtrato attraverso delle ceste per ottenere il flos gari, il fiore del garum, il più nobile, e poi il liquamen, salsa di seconda scelta contenente residui solidi. La pasta che si raccoglieva nei filtri era chiamata allec (hallec, hallex, allex) letteralmente putredine o feccia, destinata all’alimentazione degli schiavi. C’erano però anche allec raffinati e costosissimi, fatti con ostriche, ricci di mare o anemoni di mare.

Gli eredi del garum

Oggi esistono in tutto il mondo alcune salse che per ingredienti impiegati e preparazione ricordano proprio il garum. Tra tutti la celebre colatura di Cetara, piccolo borgo sulla Costiera Amalfitana, ottimo condimento della pasta, ma anche di piatti di carne e di pesce. Pare che la sua nascita risalga all’epoca medievale, nel XIII secolo, quando i monaci di San Pietro a Toczolo scoprirono il modo di ottenere una salsa di pesce, conservando per sbaglio le sardine sotto sale in barili non stagni, che lasciavano colare il liquido prezioso. Oggi la colatura di alici rimane fortunatamente un prodotto non industriale, a causa dell’estrema laboriosità richiesta.

Stesso lungo procedimento richiede il fesikh egiziano, tradizionale della Pasqua copta, che prevede fermentazione, salatura ed essicazione della carne di cefalo. La tecnica viene tramandata da padre in figlio e costituisce un vero mestiere, chiamato in Egitto fasakhani. In Grecia troviamo la tsiros, e tornando in Italia, nel Ponente della Liguria, si prepara u machetu (il «machetto»), una salsa piccante a base di acciughe, ottima spalmata sui crostini per l’aperitivo. A Nizza è nota la pissalat, cioè pesce salato, con il quale si prepara la pissaladière, la focaccia farcita con acciughe sotto sale, cipolle, erbe aromatiche e decorata con olive nere. Insomma, in generale le salse a base di acciughe sembrano derivare dall’antico garum, antenato anche della salsa veneta usata per condire i bigoli, la bagnacauda piemontese o l’acciugata toscana.

Se ci spostiamo in oriente, troviamo miriadi di salse di pesce davvero molto simili al garum, come, per citarne sono alcune, l’antichissima nuoc mam vietnamita, dall’odore fortissimo, la nam pla thailandese, la tuk trey cambogiana, il patis delle Filippine. E ancora la salsa ishiru in Giappone e la yu lu in Cina.


Maria Milvia Morciano
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Archeologa e storica dell’arte, sono dottore di ricerca, specializzata in archeologia e autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. Sono una esploratrice bulimica di luoghi e biblioteche, mentre con il cibo ho un rapporto sereno e convinta che sia la chiave per capire il mondo e le persone. Il mio motto è: dimmi come mangi e ti dirò chi sei.
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