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Dakota pipeline: le proteste dei nativi americani

Dakota pipeline: le proteste dei nativi americani

Ad aprile di quest’anno è stato completato l’ultimo tratto del Dakota Access Pipeline, un oleodotto che attraversa quattro stati americani. Il progetto ha scatenato numerose proteste, la più conosciuta quella nella Standing Rock Indian Reservation.

Un oleodotto da 2000 chilometri

Il progetto da 3.78 miliardi di dollari è stato presentato per la prima volta nell’aprile del 2014 dalla Energy Transfer Partners, un’azienda con sede a Dallas: il loro fine è quello di costruire un oleodotto sotterraneo di circa 2000 chilometri partendo da Bakken in Nord Dakota, passando per il Sud Dakota e Iowa, fino a Patoka in Illinois. Da qui, un’altra parte del progetto prevede la costruzione di un collegamento fino a Nederland in Texas, portando a compimento il cosiddetto Bakken System.

I primi incontri con la cittadinanza, organizzati tra l’agosto del 2014 e il gennaio 2015, sollevano fin da subito qualche perplessità: non tutti sono d’accordo nel dover vendere i propri terreni, mentre alcuni sono preoccupati per il possibile impatto ambientale. Questi dubbi sono fin da subito fugati dai rappresentanti dell’azienda: erano stati fatti tutti gli esami preventivi per scongiurare qualsiasi pericolo ambientale e i proprietari terrieri sarebbero stati pagati equamente. Queste rassicurazioni non sono sufficienti a convincere tutta la popolazione della buona riuscita del progetto. In diverse zone vengono organizzate proteste da parte di nativi americani, proprietari terrieri e ambientalisti: la loro maggiore preoccupazione era legato alla fuoriuscita di greggio nel sottosuolo se qualcosa fosse andato storto.

Le proteste alla Standing Rock Indian Reservation

La protesta più grande si è registrata alla Standing Rock Indian Reservation: i primi «protettori», come preferiscono farsi chiamare i Sioux accampati vicino al cantiere, si riuniscono nel gennaio del 2016 dopo che viene dato il via libera al progetto. Inizialmente l’oleodotto non doveva passare per quella zona, ma a dieci miglia di distanza da Bismarck. L’USACE (United States Army Corps of Engineers), una sezione dell’esercito americano specializzata in ingegneria e progettazione, valutò questa opzione come non praticabile perché troppo vicina alla fonte primaria d’acqua della città. Peccato che la situazione si ripresenti allo stesso modo nella zona della riserva indiana. Qui il progetto, cambiato nel settembre del 2014, prevede di scavare sotto al fiume Missouri e al lago artificiale Oahe, esattamente come in altri 21 siti lungo tutto il percorso. In aggiunta, la zona sotto cui passa l’oleodotto è considerata dai nativi come un luogo sacro: quest’area venne loro assegnata nel 1868 dopo la firma del trattato di Fort Laramie. Negli anni furono oggetto di numerosi espropri, tra i quali quello per la costruzione lo stesso lago Oahe nel 1960: per la sua creazione, l’USACE fece sommergere 200 mila acri di terreno, costringendo migliaia di persone a spostarsi. Oggi, l’aspetto su cui in nativi premono è che una fuoriuscita di greggio potrebbe danneggiare l’ambiente e la falda acquifera, compromettendo sia l’approvvigionamento d’acqua della riserva.

Anche nel caso della Dakota Access Pipeline, le comunità native accusano le autorità di non averle consultate a sufficienza prima di autorizzare il progetto e di voler intaccare ancora una volta quella che è la loro terra, rischiando di danneggiarla irrimediabilmente. Dopo l’inizio delle proteste e la creazione di un campo vicino al cantiere, cominciano una campagna di raccolta firme che li porta fino a Washington. La questione diventa di interesse nazionale, ricordando a molti il caso di un altro oleodotto interrotto nel 2015, il Keyston XL. Le fila dei manifestanti all’accampamento di Sacred Stone cominciano ad ingrossarsi, vedendo tribù storicamente nemiche come i Lakota e i Crow protestare accanto ai Sioux. Diversi filmati girati durante quei mesi mostrano più volte un uso smodato della forza da parte della polizia: proiettili di gomma, cani, lacrimogeni e uso di idranti in giornate con temperature che scendevano sotto lo zero. Senza prendere d’esempio questi episodi estremi, nell’estate del 2016 dopo l’inizio degli scavi, il direttore dell’Homeland Security Division Grey Wilz diede l’ordine di portare via le cisterne d’acqua date in dotazione all’accampamento dal North Dakota’s Health Department. Un modo per scoraggiare le centinaia, se non migliaia, di persone che continuavano ad occupare la zona da inizio anno.

Il permesso NWP 12: un espediente già visto

Sul fronte legale, accanto a svariate petizioni portate fino a Washington, si comincia a discutere su come la Energy Transfer Partners abbia ottenuto i permessi per costruire in siti così delicati dal punto di vista idrogeologico. In particolare, ci si concentra sull’uso di un permesso rilasciato dall’USACE chiamato NWP 12: questo documento viene aggiornato ogni quattro anni e risulta molto più veloce e conveniente per ottenere le autorizzazioni necessarie. Non sono richieste tutte le verifiche del Clean Water Act e del River and Harbor Act, ma è fondamentale che il progetto venga diviso in piccole parti. Questo espediente è stato usato anche per il Keyston XL pipeline, con più di 2000 autorizzazioni NWP 12.

Gli appelli in tribunale e l’intervento del governo centrale

Le proteste hanno comportato notevoli ritardi al completamento dell’oleodotto che doveva entrare in funzione nell’ottobre del 2016. Durante questi mesi, i nativi americani di Standing Rock portano la questione anche in tribunale, appellandosi sia a motivazioni ambientali che storiche. Il giudice dà però ragione all’USACE, dando il via agli scavi. Manca oramai solo quella porzione di tratto per completare l’opera. Con l’inizio dei lavori gli scontri tra polizia e manifestanti si accentuano: gli attivisti accusano la polizia di usare metodi violenti, mentre questi ultimi li accusano di sabotaggi e azioni violente. In supporto ai nativi americani arrivano anche centinaia di veterani dell’esercito ed evitare ulteriori scontri con le autorità.

Dopo la decisione del tribunale, e a causa del clima teso, entrano in gioco anche il Dipartimento dell’Interno, quello della Giustizia e della Difesa: il presidente Obama si interessa alla questione, fino a che a dicembre è lo stesso USACE a bloccare i lavori e cercare una via alternativa, come nel caso di Bismarck. Quella soluzione alternativa, però, non verrà mai trovata e con l’insediamento di Trump i lavori vengono portati a termine e l’accampamento sgomberato.

Quello di Standing Rock Indian Reservation non è l’unico campo di protesta organizzato durante i lavori: a Novembre 2016 ne viene costruito uno vicino al fiume di Des Moines, mentre tre mesi prima ne era sorto un altro sulle rive del fiume Mississippi fino alla chiusura del cantiere. La vicenda si conclude a soli quattro giorni dall’insediamento alla Casa Bianca di Donal Trump con la firma della delibera per completare il progetto, aggiungendo anche la realizzazione dell’oleodotto Keyston XL che era stata interrotta due anni prima. Quella che poteva sembrare una vittoria dei Sioux è stata cancellata da un tratto di penna.

Fonti: nytimes.com – bismarcktribune - thehawkeye.com – newyorker.com – desmoinesregister.com - harvardelr.com – theintercept.com – ilpost.it – internazionale.it – bcc.com – wikipedia.org


Carlotta Pervilli
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Laureata in Storia, ma appassionata di giornalismo. Disorientata tra conflitti mondiali e ambiente, resta certa solo di una cosa: l’essere curiosa.
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