Non è un caso che questo modo di alimentarsi sia caratterizzato dalla ‘strada’ e non da un semplice consumo all’aperto: è sulle vie battute delle città che le persone si incontrano, e assieme a loro le idee, le parole, le tradizioni. Per strada si respira cultura e profumo di pesce fritto, almeno se vi foste trovati presso i porti dell’antica Alessandria, o di minestra e altri cibi cotti tra i vicoli di Ercolano e Pompei.
Sono molte le tracce lasciate dalle prime forme di cibo di strada. In Occidente in particolare l’impero romano fu caratterizzato da molti esempi di quello che oggi viene definito street food, mentre è più difficile parlare delle sue origini in Asia. Lungo l’arco della storia europea il cibo di strada continuò ad essere un filo conduttore del ceto popolare urbano, seguendo silenziosamente passo passo l’evoluzione delle esigenze del ‘popolino’.
Un esempio su tutti quello dei ‘pâtés’ o ‘pâstés’, una sorta di pasticcio racchiuso in un impasto venduto a Parigi a garzoni e facchini, contenti di poter consumare un buon pasto direttamente con le mani, senza smettere di lavorare. Su quella linea le tavole europee conobbero lo sfarzo delle torte ripiene di ogni genere di prelibatezza, dal foie-gras ai piccioni, dando il nome alla categoria dei pasticceri e gettando le basi per quelle preparazioni farcite con interiora stufate, così tipiche nei pasti dei minatori inglesi dell’età industriale.
E qui si inizia ad intravedere un interessante paradosso: la cucina popolare tipica dello street food ha avuto, almeno nei secoli passati, una connotazione volgare, sicuramente non era l’alimentazione delle classi abbienti, mancava di un qualsivoglia valore; oggi invece viene trattata come baluardo della gastronomia del territorio, del prodotto genuino e tipico, della ricetta tradizionale.