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The Ocean Cleanup project: come l’oceano può ripulirsi da solo

The Ocean Cleanup project: come l’oceano può ripulirsi da solo

Un team di ricercatori sta portando avanti il progetto «The Ocean Cleanup», con l’obbiettivo di ripulire gli oceani. Parola d’ordine: agire come la plastica.

Avevamo già affrontato il tema del Great Pacific Ocean Garbage Patch, o Pacific Trash Vortex, un’enorme accumulo di spazzatura nell’Oceano Pacifico e di come le microparticelle di plastica entrino nella catena alimentare. Ora, il progetto The Ocean Cleanup si è prefissato l’obiettivo di risolvere questo problema.

Facciamo un passo indietro

A chi è venuta in mente di tentare di ripulire un’area così vasta di oceano? Si tratta dello studente di ingegneria Boyan Slat: a soli 16 anni, dopo una vacanza in Grecia, rimane sconvolto dalla quantità di plastica che incontra durante le immersioni. Cominciò a balenargli per la testa una domanda molto semplice: perché non pulirla?

Il sistema più comune è quello delle navi che come spazzini raccolgono i detriti di plastica nell’oceano. È però troppo oneroso, sia economicamente che per l’ambiente. Ogni anno vengono prodotti 300 milioni di tonnellate di plastica nel mondo e solo in quella parte di oceano si stima che vi siano dai 3 ai 100 milioni di tonnellate di detriti. Il sole, il vento e l’acqua li deteriorano in microparticelle, ma la plastica rimane.

La prima versione del progetto Ocean Cleanup prevede l’uso di una rete da pesca a forma di Manta, un grosso pesce romboidale che vive prevalentemente nei mari caldi o temperati. Questa rete da pesca è stata progettata per essere 15 volte più fine delle normali: l’acqua passando attraverso questa rete lasciava dietro di sé i detriti, anche quelli più piccoli, di solito numericamente maggiori del 40%. Questo sistema rimaneva legato all’uso di una barca alla quale attaccare la rete: bisognava cambiare strategia.

Il punto di svolta fu capire che non bisognava tentare di catturare la plastica, ma dirottarla sfruttando le correnti degli oceani. La Pacific Trash Vortex, e lo dice anche il nome, è un vortice, un insieme di correnti che girano su se stesse. Il sistema andava reso passivo, farlo diventare parte dell’oceano stesso in modo da non dover impiegare nessun tipo di energia o altro macchinario per raccogliere la plastica. È l’oceano stesso che la porta a te.

Raccolti i fondi, inizia lo studio

Nel 2012, accompagnato da 100 tra scienziati ed ingegneri, comincia il primo vero studio che porterà alla pubblicazione di un volume di 528 pagine del giugno del 2013. Attraverso spedizioni e test in laboratorio ottengono risultati che spaziano dalla velocità delle correnti in superficie e profondità, alla velocità del vento e come questo incida sulle correnti; dalla distribuzione della plastica a seconda della profondità, a come implementare il sistema e farlo diventare autosufficiente. La seconda spedizione più importante, a seguito di una campagna di crowdfunding da 2.2 milioni di dollari, si concentra sulla distribuzione verticale della plastica negli oceani. La base operativa era nell’Atlantico del Nord: attraverso un multi-level trawl, una struttura verticale con 11 reti da 50 cm per 30 cm e una profondità di 5 metri attaccata di lato alla nave, arrivano alla conclusione che più si scende in profondità, più i detriti diminuiscono.

Dopo questi primi risultati, nell’agosto del 2015 partono per una spedizione da 30 navi nel Pacifico. L’intento è quello di mappare una zona di 3.5 milioni di chilometri quadrati per arrivare ad una stima più precisa sulla quantità di detriti plastici in quell’area. Nello stesso periodo diversi vengono compiuti due diversi test su modelli in scala della struttura: uno al Deltares, un istituto di ricerca olandese, l’altro al MARIN, secondo centro di ricerca specializzato in postazioni offshore. L’obiettivo era capire come la struttura si sarebbe comportata, soprattutto in condizioni atmosferiche avverse come le tempeste.

Ocean Cleanup: il progetto finale

Solo un anno fa compiono il primo tentativo in mare aperto con la nuova struttura: questa prevede una barriera galleggiante, a cui è attaccata una rete profonda pochi metri, il tutto ancorato a 600 metri di profondità. Come si può vedere nell’immagine, si tratta di una barriera semicircolare, collegata all’ancora da due reti che le danno una forma triangolare sotto il livello dell’acqua. Il punto in cui viene trasportata è nel Mare del Nord, a 23 chilometri dalla costa dell’Olanda. Ci resterà per dieci settimane, abbastanza per studiare come la barriera si comporta di fronte a qualsiasi condizione atmosferica. Grazie alla sua forma semicircolare e flessibile, la struttura segue l’andamento delle correnti. Resta a galla, seguendo le onde in superfice, ma viene trasportata per il mare, vedendo così venirle incontro i detriti di plastica. Inoltre, con l’ancora posta a una profondità simile, si muoverà più lentamente rispetto ai detriti di plastica: come già detto, le correnti in profondità sono più lente rispetto a quelle in superficie.

Quali danni potrebbe provocare all’ecosistema?

Gli studi portati avanti in questi anni si sono concentrati anche sulle possibili ripercussioni sull’ecosistema marino: la rete può essere un pericolo per i pesci? Dai risultati ottenuti, la fauna marina passerebbe sotto la barriera, seguendo la corrente, mentre la sola plastica verrebbe catturata. Resta il problema della biomassa di plancton: anche guardando alle stime peggiori, con 10 milioni di chilogrammi all’anno intrappolati in questa rete, la stessa quantità si riproduce in 7 secondi. L’ecosistema non ne risentirebbe.

Il progetto finale prevede di disporre nell’area dell’Oceano Pacifico più barriere di medie dimensioni entro il prossimo anno. L’obbiettivo è quello di riuscire a raccogliere 3 tonnellate di plastica al giorno che verrà riciclata e usata per la produzione di nuovi oggetti. Se qualcuno prospettava centinaia, se non migliaia di anni per ripulire gli oceani, qui si tenta in un solo decennio.

Per continuare con l'argomento oceano e inquinamento, come già accennato all'inizio di questa pagina, vi consigliamo la lettura di un nostro articolo sulla plastica nella catena alimentare.


Carlotta Pervilli
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Laureata in Storia, ma appassionata di giornalismo. Disorientata tra conflitti mondiali e ambiente, resta certa solo di una cosa: l’essere curiosa.
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