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Il mondo della pasta ripiena: tra ravioli, tortelli e agnolotti

Il mondo della pasta ripiena: tra ravioli, tortelli e agnolotti

La pasta ripiena, tra ravioli, tortelli, tortellini, agnolotti rappresenta un vero universo culinario tutto da scoprire.

Il mondo della pasta ripiena è fatto di tanti nomi diversi e altrettanti varianti nella forma, nelle dimensioni e negli ingredienti. Ravioli, tortelli, tortellini, agnolotti, anolini, solo per citare i tipi più famosi e diffusi. La geografia della pasta ripiena si dirama in gran parte d’Italia, lasciando fuori alcune regioni del sud, dove invece fa da padrona la pasta fresca o secca non farcita, come in Sicilia o in Puglia. Al contrario, nelle regioni del nord e del centro, ogni zona presenta una sua variante, contrassegnata da un nome tradizionale e dai profumi della sua terra.

Storia della pasta ripiena in Italia

Cerchiamo di tracciarne una mappa, distinguere le differenze, scoprirne le caratteristiche. Per riuscirci occorre ripercorrere il tempo a ritroso e ricostruire la storia delle origini. La pasta appare in epoca antica. La lagana, antesignana della nostra lasagna, ovvero sfoglie di pasta fresca sovrapposte a sigillare il ripieno e formare una torta, è citata dal Liber de coquina nel XIV secolo, ma è ricordata già nel I sec. a.C. dal poeta Orazio. Nel corso del medioevo queste torte si miniaturizzano fino a poter essere mangiate in un sol boccone. Il nome va adeguato, ecco quindi che le piccole e piccolissime torte diventano tortelli e tortellini. Margutte, nel Morgante di Luigi Pulci (1478) dice: «Io credo nella torta e nel tortello: l’una è la madre e l’altro il suo figliuolo».

Il nome più diffuso per indicare la pasta ripiena è raviolo, dall’etimologia incerta e discussa. Ad esempio per qualcuno equivarrebbe al piemontese raviolé, avvoltolare. E sulla parola anolino inutile aprire la lunga discussione tra l’assonanza del termine medievale raviolèn con anolen. Rimane il fatto che se oggi raviolo e tortello sono sinonimi, nel passato non era così, erano due cose diverse: il tortello era l’involucro di pasta e il raviolo il suo ripieno. All’inizio le forme non sono soltanto cotte in brodo o in acqua, ma anche fritte, così che ravioli e tortelli si trovano sia nelle sezioni dei ricettari riservati ai bignè, sia in quelle dedicate alla pasta ripiena. Nel XV secolo il raviolo è riconosciuto a pieno titolo come pasta ripiena, dalle forme sempre più virtuosamente piccole, e sempre cotto nel brodo. Tuttavia il raviolo è presente in diverse fonti medioevali, specie quelle riferite alla Liguria.

Pasta ripiena, tra tradizione e cultura

La pasta ripiena riscuote un tale apprezzamento da trovare posto d’onore nel Paese di Bengodi descritto dal Boccaccio nel Decameron che immagina, proprio al centro della landa, un gran monte di parmigiano grattugiato sulla cui cima, dentro un pentolone colmo di brodo di cappone, cuociono incessantemente ravioli e maccheroni che una volta cotti sono fatti rotolare a valle, pronti per essere mangiati. Ciò che ha contrassegnato l’Europa cristiana è la scansione del tempo secondo il calendario liturgico, dove a giorni di magro seguivano quelli di grasso: alla dieta leggera e priva di carni di Quaresima seguivano i grandi banchetti a base di carne dei giorni di festa come Pasqua e Natale.

Ecco che la malleabilità della pasta si racchiude in uno scrigno per accogliere una farcia composta di verdure e formaggio o di carne: maiale ma anche pollame, specie cappone, che era usato anche per il brodo, secondo l’Artusi il più adatto e gradevole per questa minestra. Gli ingredienti riflettono sempre le diverse culture locali, come quella del maiale per l’Emilia (tortelli ripieni di carne) e della pecora in Romagna e altre regioni italiane (tortelli di formaggio) o di pesce in prossimità del mare, di laghi e fiumi. Insomma, gli ingredienti della farcia corrispondono sempre alle ricchezze disponibili e alle risorse locali.

Nei ricettari i ravioli sono identificati con il nome dell’ingrediente principale, di zucca fresca o secca, erbaggi, funghi e carne di maiale; per l’intenzione dietetica, per gli inappetenti o i malati di stomaco; per il colore, si facevano anche tortelli di sei colori; ancora, alcuni sono contrassegnati dai luoghi di origine, come i tortelli alla bolognese, quelli di Assisi e così via, mentre nel Piemonte, un tipo molto popolare è definito dal gesto usato per la sua confezione, il plin, pizzicotto.

Le mille forme della pasta ripiena

Quanto alle forme, esse non sono considerate importanti. Nel 1570 solo Bartolomeo Scappi accenna alla forma degli annolini. Comunque, le più utilizzate erano quelle tonde o quadrate e talvolta allungate a cannoncino. Più che le forme, evidentemente canonizzate in tempi successivi, interessavano le dimensioni, che dovevano essere minuscole, a tal punto che per gli annolini il celebre cuoco pontificio parla della dimensione di un fagiolo o di un cece.

La pasta ha un’unica funzione: quella di tenere insieme il ripieno, pertanto più è sottile meglio è, deve lasciar trasparire il ripieno. Salimbene da Parma scrive nella Cronaca, nel XIII secolo, che i ravioli senza la crosta di pasta sono il segno dell’evoluzione del gusto, della «raffinatezza della golosità umana». L’involucro quindi si dissolve in un semplice velo di farina negli ignudi romagnoli e nei malfatti lombardi e sono chiamati ugualmente ravioli, anche se la pasta non c’è. Pellegrino Artusi fornisce la ricetta dei ravioli alla genovese e commenta: «Questi, veramente, non si dovrebbero chiamar ravioli, perché i veri ravioli non si involgono nella sfoglia». Al contrario, sempre in epoca medioevale, i ravioli possono essere vuoti, anche se «puoli empiere, se tu vuoli» e assumono le forme fantasiose di animali, lettere dell’alfabeto o ferri di cavallo, preferibilmente fritti nell’olio.

Secondo Ortensio Lando, nel suo Catalogo degli inventori del 1550, la contadina Libista da Cernuschio sarebbe «l’inventrice dei ravioli avviluppati nella pasta». La leggenda ci parla non solo del ruolo assunto dalle donne in cucina, ma anche di una pietanza ottenuta dal recupero di ingredienti avanzati, come i resti di carne e quindi di una cultura contadina senza sprechi, che il cibo se lo guadagnava con fatica e lavoro. E una cucina del recupero non ha ricette codificate, strette nei laccioli delle dosi e degli ingredienti, ma legate piuttosto alla estemporaneità del bisogno e della disponibilità delle materie prime, come nel caso dei tortelli piemontesi, privi di una ricetta universale. E non è un caso che normalmente si consideri la Lombardia, terra di Libisca, il luogo di maggiore creatività in fatto di pasta ripiena.

Ad ogni pasta il suo nome

Tra XVI e XVII secolo compaiono forme, nomi e ingredienti destinati a saldarsi a luoghi precisi. Cappelletti e agnolini chiamati agnoli nel mantovano e marubini a Cremona, cappelletti al di là del Po. L’anolino di Parma, l’anolino della Piana Piacentina (anvëin o anvén), l’anolino di Reggio Emilia, i casoncelli (casonsèi) di Brescia e Bergamo. Tordelli in Lunigiana e a Lucca, profumati di pepolino. I pansoti liguri, tipici della zona di Nervi, si distinguono dai ravioli alla genovese perché non contengono carne. I ravioli capresi, antichissima e originale pietanza del Golfo di Napoli, si distinguono per l’impasto ottenuto senza uova. In Sardegna la pasta ripiena, destinata alle tavole dei ricchi nel giorno dedicato alle anime dei morti, Sa dia de macarronisi, è un particolare tipo di raviolo chiamato culurgiònes, declinato nelle molteplici varianti linguistiche locali, a base di patate e formaggio.

I ravioli sono stati riconosciuti prodotti agroalimentari tradizionali italiani. Da nord a sud lungo la penisola, come abbiamo detto, troviamo numerosissimi tipi pasta ripiena. Nel 1993 Luigino Bruni ha tentato di formare un vero e proprio corpus di ricette dedicato, come recita il titolo, a Sua Maestà il Raviolo e non sembra completo, ma che purtuttavia apre una finestra su una particolarità gastronomica tornata in auge di recente, con la rivalutazione delle tradizioni regionali e delle specialità tipiche, esponente a pieno titolo, come ha scritto Carlo Petrini, della pasta-slow di contro allo slow-food imperante.


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Maria Milvia Morciano
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Archeologa e storica dell’arte, sono dottore di ricerca, specializzata in archeologia e autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. Sono una esploratrice bulimica di luoghi e biblioteche, mentre con il cibo ho un rapporto sereno e convinta che sia la chiave per capire il mondo e le persone. Il mio motto è: dimmi come mangi e ti dirò chi sei.
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