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Slow food, slow economy

Slow food, slow economy

Il 4 giugno l’Economist ha pubblicato un articolo dal titolo “For the love of pizza”, ripreso successivamente da molti giornali nostrani, in cui veniva preso di mira il sistema di certificazione dei prodotti europeo, e in particolare la spiccata diligenza italiana nell’applicarlo ai propri prodotti, possibile fattore della nostra slow economy.

«These days pizza is a gastronomic mirror, reflecting Italy’s anxiety about globalisation.»

L'articolo

Lungo tutto l’articolo il dito ammonitore del giornale è puntato verso il modo di fare all’italiana, colpevole di avere una visione troppo romantica e poco pratica dei mercati alimentari. Troppe energie spese per rendere un alimento inimitabile, troppa paura che all’estero qualcuno possa reclamare un prodotto come italiano senza che ne abbia reale motivo, tutte scelte in grado di azzoppare, secondo il settimanale, la crescita economica del Bel Paese. L’affondo arriva con i casi di Domino’s pizza e Starbucks, realtà imprenditoriali portate come esempi virtuosi di globalizzazione di preparazioni tradizionali italiane come il caffè e la pizza made in USA.

La focaccia di Recco e la slow economy

Un caso interessante che vale sicuramente la pena citare in questa discussione è quello della focaccia di Recco e della sua certificazione, che ha portato a una situazione veramente paradossale. L’11 novembre del 2015 ha visto la nascita ufficiale questa Igp, di fatto impedendo completamente l’utilizzo del nome “focaccia di Recco” per qualsiasi produzione non rispetti pedissequamente la ricetta e, soprattutto, non sia prodotta a Recco e un paio di comuni limitrofi. Da disciplinare per di più è vietata ogni pratica di surgelazione o comunque conservazione prolungata. Il risultato? Nemmeno gli stessi consorziati possono far assaggiare la focaccia fuori dal confine del ristrettissimo fazzoletto di terra.

L’apice della vicenda lo si raggiunge alla fiera dell’artigianato di Rho, dove c’è anche il banchetto per chi vuole assaggiare questa famosa preparazione. Lo stand è quello ufficiale del consorzio, di chi si è battuto strenuamente per ottenere l’Igp, tra cui spicca Lucio Bernini. Non passa molto però prima dell’arrivo dei Nas, che fanno riarrotolare gli striscioni e partire una denuncia per frode in commercio. Non è una situazione paradossale?

Risposte all'Economist

«Above all, the name-craze limits scale, productivity and innovation.»

La tesi del settimanale è che certe certificazioni creino solo difficoltà alla aziende per un salto di dimensione, aumentare la produttività o introdurre innovazioni. D’altra parte la rivista non sembrerebbe nemmeno per un momento fermarsi a pensare che magari non tutti i prodotti alimentari sul pianeta si prestano ad una economia di scala. Il nostro approccio edonistico è per loro qualcosa di distante, poco efficiente, incomprensibile, sinonimo di slow economy.

Il dato di fatto è che il nostro Pil è fermo da tempo, e rinunciare alla crescita economica per una questione di “dignità alimentare” può sembrare risibile. Intanto, a fine agosto del 2016, gli sforzi per predisporre il trattato commerciale famoso come Ttip sembrerebbero essere arenati, troppi pochi i controlli a cui sono sottoposte le aziende statunitensi; "Gli americani non concedono niente, o lasciano soltanto le briciole" così commenta il viceministro al Commercio estero francese Fekl. In un articolo del 30 Agosto pubblicato sul Sole 24 ore, Bruxelles si dice “pronta a chiudere l’intesa «entro la fine dell’anno», ma senza sacrificare «sull’altare del libero commercio gli standard europei nei campi della sicurezza, della salute, del sociale e della protezione dei dati così come la diversità culturale».”


Matteo Buonanno Seves
Matteo Buonanno Seves
Scopri di più
Un giovane laureato in Scienze Gastronomiche con la passione per il giornalismo e il mai noioso mondo del cibo, perennemente impegnato nel tentativo di schivare le solite ricette e recensioni in favore di qualcosa di più originale.
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