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Dove si impara a mangiare?

Dove si impara a mangiare?

Forse è un po’ il sogno di tutti, almeno quando la si racconta a chi non è pratico: “studio scienze gastronomiche” e sistematicamente le reazioni sono tra il divertito e il sorpreso, anche se il novanta per cento delle volte la risposta è: “quindi cucinerai benissimo?” Ebbene no, c’è chi il cibo non lo studia per cucinarlo, piuttosto per mangiare al meglio.

A lezione col calice

È stato più che soddisfacente entrare in aula per il corso di degustazione critica con un calice tra le mani, pronti ad assaggiare qualche ricercata bottiglia con il produttore a raccontarti, per filo e per segno, la vicenda di quegli acini ormai così irriconoscibili. E magari fossero stati tutti così i corsi, ma iniziamo dal principio.

Da qualche decina d’anni il food (l’inglesismo domina anche in questo settore) sta diventando argomento di ampia discussione, tanto più che esiste l’errata percezione, concedetemelo, che siccome ognuno di noi mangia, tutti si può parlare di cibo. Che sia la ricetta giusta della parmigiana, la provenienza della verdure al supermercato, l’edulcorante di turno o gli assetti geopolitici dell’alimentazione. Inutile dire che il tutto genera una discreta confusione, e mi piace pensare che proprio da qui nasca l’esigenza di avere una figura di riferimento che possa giostrarsi con cognizione di causa nel mare magnum del moderno mangiare.

Le offerte formative

Inutile dire chi sia stato il primo, le fonti non sono concordi, è abbastanza sicuro che si giocano la posizione l’Università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo e il corso di Scienze Gastronomiche dell’Università degli studi di Parma, ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. La prima in ogni caso gode di una nomea strabiliante in particolare all’estero, da dove provengono circa la metà degli iscritti, che per una retta da università privata (si superano i 13 mila euro) si vedono offrire un pacchetto formativo senza rivali per le controparti pubbliche.

Controparti che però tendono a difendersi con le unghie e con i denti, in particolare a Parma, forte di una cultura gastronomica locale tra le più conosciute al mondo, con il suo prosciutto crudo e il parmigiano, ma anche spinta verso l’innovazione, grazie a un polo aziendale e tecnologico decisamente avanzato (leggi Barilla). Anche Padova, Perugia, Roma e non ultima Milano offrono un interessante pacchetto di corsi gastronomici, dividendosi tra facoltà umanistiche o, in altri casi, scientifiche o economiche.

Una menzione la merita anche edX, un portale online di corsi universitari ad accesso gratuito, sponsorizzato in primis dalla Harvard University e dal MIT, in cui si trova anche una sezione interamente dedicata a Food & Nutrition.

Gastronomia non è solo scienza

Già, ve lo scrive uno che ancora è impelagato tra i vari corsi: la gastronomia non è solo scienza. Alcune facoltà sono ancora giovani e devono ancora scoprire la loro vera identità: immaginate due corsi paralleli, uno di Scienze Gastronomiche, uno di Scienze e Tecnologie Alimentari, e che il primo debba ‘soffrire’ di una distribuzione dei crediti formativi troppo simile al secondo, chiaramente focalizzato sugli aspetti scientifici/tecnologici del cibo. Il risultato è che al termine dei due percorsi si avranno figure professionali a rischio di pestarsi i piedi a vicenda.

Questo non significa che una formazione scientifica non sia utile, tutt’altro, ma quando si tira in ballo la gastronomia mi piace ricordare la definizione dell’enciclopedia Treccani: “Complesso delle regole e delle usanze relative all’arte culinaria, che nella preparazione dei cibi privilegia l’aspetto del godimento dei sensi rispetto ai bisogni meramente nutrizionali.” Forse sarebbe più giusto immaginarci come umanisti piuttosto che scienziati, non vi diremo mai esattamente i valori nutrizionali o i processi tecnologici che hanno portato al piatto che avrete di fronte, vi racconteremo, piuttosto, la lingua che esso sta parlando.

Fonti: Food24.ilsole24ore - Studenti - Lacucinaitaliana - Finedininglovers


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